Anno:
Maggio 1992
Curatori:
Alviero Moretti
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Presentando lo Studiolo di Francesco I de Medici ed il suo Doppio, una mostra personale promossa e organizzata in modo esemplare dalla galleria Apollodoro di Roma, una esposizione manifesto che ha messo al centro una nuova maniera di dipingere con un chiaro confronto nei riguardi delle espressioni più importanti della storia dell’arte, Paolo Portoghesi ha scritto che “tornando alla figurazione e scegliendo soggetti ed argomenti in un mondo remoto, fuori della storia e contro la storia, un gruppo di artisti italiani sta riproponendo un atteggiamento che fu dei Nazareni, dei Preraffaelliti, dei Simbolisti: percorrere a ritroso il cammino del tempo fino ad incontrare una regione che è il luogo in cui ci si sente liberi, in cui un linguaggio si identifica con il desiderio lungamente nascosto e consente di riavvicinarsi al paradiso perduto”.

Luigi Frappi era giustamente presente in quella occasione.

Appariva attraverso alcune dense e sospese composizioni. Stupendi squarci di cielo con nubi pensate a formare intrighi e caroselli celesti; profonde viscere tratte dalla terra, scavata fino a mostrarle all’aria fresca dell’alba; alti tagli di mare in tempesta tra picchi scoscesi, pericolosi per i naviganti.

Si trovava insieme con Carlo Maria Mariani, con Bruno d’Arcevia, con Luciano Ventrone, con Marco Rossati ed altri che rifiutando un facile modernismo ripercorrono l’esperienza del mito, del simbolo e dell’allegoria giungendo a realizzare un ciclo di grande interesse; un programma denso di riferimenti iconologici che, cinque secoli dopo il famoso studiolo, ha dischiuso le porte, con arguta ironia, ad un’altra sala delle meraviglie, una Wunderkammer labirintica, criptica, per certi versi magica e dal sapore vagamente rinascimentale.

Luigi Frappi rappresentava allora, come nelle opere in mostra a Deruta che adoperano la ceramica come supporto, piegandola a nuovi effetti espressivi, il poeta del paesaggio, qualcosa che appare fin dagli affreschi delle case romane, così come son stati riportati, protetti e salvati dalla lava dell’eruzione, a Pompei ed Ercolano.

Il paesaggio, che continua ad animare le fantasie ed i sogni del nostro artista fino a mescolare nelle sue creazioni realtà e finzione, a tratti ritorna nella seconda metà del quattrocento nella pittura di Paolo Uccello. “San Giorgio e il drago” ne è un esempio, come il ciclo delle “Storie di Noè” nel Chiostro verde di Santa Maria Novella, a Firenze, oltre alla famosa serie con la “Battaglia di San Romano”.

Ritorna in Piero della Francesca, attraverso i paesaggi aretini dotati di quei cipressi che si specchiano nelle anse del Tevere.

Questa tematica acquista spessore nel Cinquecento attraverso il Bellini per divenire progressivamente un genere autonomo, non un dettaglio in un quadro di soggetto religioso o di battaglia.

Albrecht Durer è il primo a immortalare, con  raffinati disegni e preziosi acquerelli, gli orizzonti che ammira durante i suoi viaggi. Tra questi appare un romantico “Stagno in un bosco” ed un intenso “Paesaggio alpino”. Ciò che anima il grande maestro di Norimberga, lo stesso Altdorfer o i membri della scuola d’Anversa, che si abbandonano alla piena contemplazione del paesaggio, è il piacere dell’occhio, la seduzione della visione.

In quegli anni, mentre Deruta si trasforma in centro tra i più importanti per la produzione della ceramica, ha inizio un filone fantastico che rappresenta un universo possibile, ma che non si è mai osservato. Le opere mostrano un mondo ricco di rupi, foreste, torri e castelli inaccessibili, un paesaggio che apre la strada al gusto per il curioso, il bizzarro, l’eccentrico.

Luigi Frappi conosce assai bene, intimamente, i precursori dei suoi interessi; nutre affinità elettiva con gli autori di un naturalismo magico ricco di effetti luministici resi con precisione scientifica.

Frequenta gli ambienti di Claude Lorrain, cultore della campagna romana, di un ambiente purtroppo scomparso. Conosce Salvatore Rosa ed il magico romantico Turner che coniuga insieme, in maniera ricca di fascino,, luminismo ed effetti atmosferici fissando per sempre gli aspetti più drammatici e “sublimi” della natura.

Ancora il sublime, ossia ciò che innalza, rapisce e trasporta appare nella ricca serie di opere messe in mostra in questa occasione.

Attraverso le nitide immagini proposte Luigi Frappi ci parla dell’oggi ridando valore ad equilibri ambientali che rischiamo di veder svanire per sempre.

Infine il suo lavoro possiede la capacità di intrecciare insospettati e fertilissimi legami tra passato e futuro.

Mario Pisani